Come facciamo a rinunciare al gusto delle patatine o delle alette di pollo fritte? Soprattutto in una realtà in cui ce le troviamo davanti ad ogni angolo di strada... Dobbiamo però fare molta attenzione perché durante i processi di cottura ad alte temperature (come nella frittura) si sviluppa una sostanza tossica: l’acrilamide. Proprio la stessa reazione che conferisce l’aspetto abbrustolito ai cibi e li rende più gustosi è quella più pericolosa. Si chiama "reazione di Maillard", e avviene tra carboidrati e aminoacidi, soprattutto con l'aminoacido "asparagina" che è normalmente presente in tanti aliment. Ovviamente anche il tempo gioca la sua parte: più lungo è il processo, maggiore è la quantità di composto che si forma, creando reazioni di imbrunimento. Sono soprattutto i prodotti amidacei a creare problemi, ma anche carne e pesce "rivestiti" della panatura, che ne aumenta il contenuto in carboidrati. L’acrilamide è un composto scoperto negli alimenti per la prima volta nel 2002, ma che risulta anche da molti usi industriali non alimentari, ed è presente nel fumo di tabacco. Il 4 giugno 2015 l’EFSA (European Food Safety Auitority, l’autorità europea per la sicurezza alimentare) ha pubblicato la sua prima valutazione completa dei rischi da acrilamide negli alimenti. Il gruppo scientifico dell’EFSA ha ribadito le precedenti valutazioni in base alle quali l’acrilamide presente negli alimenti può aumentare il rischio di sviluppare il cancro nei consumatori per tutte le fasce d’età. Tuttavia sono in corso ancora studi e approfondimenti in quanto ad oggi le prove sono ricavate essenzialmente da studi su animali, che mostrano che l’acrilamide e il suo metabolita, la glicidamide, sono genotossiche e cancerogene: danneggiano cioè il DNA e provocano il cancro. La legislazione definisce valori massimi per alcune tipologie di alimenti, che i preparatori del settore dovrebbero rispettare (patatine fritte ma anche caffè e cereali per la prima colazione). Tali valori, espressi in 100g di alimento, sono riportati nell’Allegato della raccomandazione 2013/647 dell’Unione Europea, che non contempla però i pericoli di accumulo, ovvero cosa succede se supero i 100g di un determinato alimento che contiene acrilamide, o se mangio più alimenti contemporaneamente. Sul banco degli imputati ci sono soprattutto le patatine fritte, ma anche il caffè e il pane tostati eccessivamente. Dall’indagine dell’EFSA, basata su oltre 43 mila campioni di alimenti raccolti e analizzati in 24 Paesi europei tra il 2010 e il 2014 è emerso che quelli più esposti alla contaminazione chimica da acrilammide sono i succedanei del caffè (come la bevanda solubile), il caffè in polvere e le patatine fritte. Più bassi, invece, i valori riscontrati nei cereali per la prima colazione, nel pane morbido e negli alimenti destinati ai bambini. Nonostante il primato del caffè, però, a preoccupare è soprattutto la contaminazione diffusa riscontrata nelle patate, che risultano consumate con frequenza tra i bambini (a differenza del caffè), più esposti ai danni dell’acrilammide in ragione del peso inferiore. Sono in corso studi per selezionare varietà di patate che contengano poca asparagina, così da limitare la formazione delle sostanze tossiche, anche se senza dubbio questo è un processo piuttosto lungo. Nel frattempo è bene adottare qualche indicazione di massima: - non conservare le patate a basse temperature, come nel frigorifero, per evitare di aumentarne la quota di zuccheri liberi che poi sono in grado di reagire con l’asparagina; preferire un luogo buio, per evitarne la germinazione - preferire cotture salutari come la bollitura e a quella a vapore - meglio cuocere le patate dopo averle tenute in acqua per 15’-30’, non farle germogliare prima di portarle a tavola - nella frittura usare oli con alto punto di fumo: olio di oliva e olio d'arachide sono perfetti, se conservati ben chiusi e al buio - Usare friggitrice o un termometro per verificare che non si superi la temperatura del punto di fumo. Non bisognerebbe mai friggere a una temperatura inferiore a 160 e superiore a 180 gradi. È in questo intervallo che, con un tempo adeguato, si ottiene la migliore cottura senza la liberazione di sostanze tossiche - Usare una padella alta e stretta, che tiene basso il punto di fumo. Sarebbe bene friggere sempre in abbondante olio - Cambiare spesso l’olio, anzi sarebbe meglio usarlo una sola volta e comunque non quando è diventato scuro - Non riempire troppo la pentola con il cibo, per favorire una buona cottura ed evitare che i vari pezzi si appicchino tra loro Ricordiamo che Il punto di fumo è la temperatura alla quale la composizione dell’olio cambia e si producono le sostanze tossiche; è specifico per ogni olio, ed è influenzato dalla quantità di acidi grassi liberi, che a loro volta si sviluppano dall’esposizione alle temperature alte. E attenzione… abbiamo parlato di olio di oliva e non di extra vergine di oliva! L’extravergine di oliva, non essendo raffinato e quindi dotato di una scorta di acidi grassi liberi superiore, ha una quota di sostanze che lo rendono pregiato, ma che ad alte temperature vengono degradate, assieme all’aroma, che tende a svanire. Ecco perché, se non a basse temperature, il suo utilizzo nelle fritture non è consigliato. Per quanto riguarda il pane tostato, è meglio eliminare la parte che dovesse risultare eccessivamente imbrunita. Quindi, senza allarmismi inutili, è bene seguire le regole della sana alimentazione, che comunque, in generale, contempla la riduzione del consumo di cibi fritti- per abbattere l’esposizione all’acrilamide-, fare in modo che questi non siano troppo imbruniti, e possibilmente consumarli accompagnati con frutta e verdura, ricche di antiossidanti che contrastano l’effetto tossico dell’acrilamide. Un'alimentazione diversificata ed equilibrata è sempre la scelta vincente.
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L'osteoartrite (OA) è una malattia degenerativa cronica delle articolazioni sinoviali e una causa comune di disabilità locomotoria degli adulti. Non c'è alcuna cura, o cure efficaci che arrestino o rallentino la sua progressione. I trattamenti farmacologici correnti, come gli analgesici, possono migliorare il dolore ma non ne alterano la progressione. Anzi, i farmaci abitualmente utilizzati per il trattamento sintomatico sono associati ad effetti collaterali che hanno portato ad un crescente interesse verso l’utilizzo di opzioni alternative. Studi recenti suggeriscono che i composti nutraceutici come i flavonoidi, polifenoli, fito e bioflavonoidi, derivati da tè verde, melograno, zenzero, curcuma e rosa canina, hanno mostrato promettenti prove preliminari per il loro effetto nella prevenzione e nel trattamento di OA. Ma cosa sono i nutraceutici? Sono alimenti o prodotti alimentari che forniscono prestazioni salutistiche, comprese la prevenzione e/o il trattamento di una malattia, che offrono non solo profili di sicurezza elevati, ma possono esercitare modifiche nella malattia e nei sintomi. Studi pre-clinici e clinici attuali sono risultati promettenti, e mostrano che i singoli composti nutraceutici esercitano effetti benefici sul OA, a livello di miglioramento della sensazione del dolore e di funzionalità, anche se i loro effetti sul miglioramento della malattia non sono stati ancora chiaramente dimostrati, anche per il fatto che OA è una malattia cronica, complessa e con molteplici fattori di rischio. Probabilmente gli approcci futuri saranno basati su una combinazione di composti, che nel loro insieme potranno agire su aspetti antinfiammatori, antiossidanti, analgesici. I principali composti studiati sono: Il the verde, anche se nonostante l’elevata concentrazione di antiossidanti non sembra avere molti effetti sull’artrosi. Il melograno, che è ampiamente usato nella medicina tradizionale cinese per trattare l'infiammazione e il dolore nelle malattie tra cui l'artrite. Ricco di polifenoli e antociani, ha elevate proprietà antiossidanti e anti-infiammatorie. Lo zenzero è un condimento ampiamente utilizzato ed è stato a lungo prescritto in Cina e in India per le condizioni, come nausea, vomito, mal di testa, e l'artrite, a causa dei suoi effetti stimolanti anti-infiammatori. Il Ginger non è tossico ed è generalmente riconosciuto come sicuro da parte della Food and Drug Administration. In alternativa alla terapia con FANS per le condizioni artritiche, lo zenzero ha mostrato risultati moderatamente positivi. Da uno studio randomizzato controllato con placebo, è emerso che i pazienti con OA trattati con estratti di zenzero hanno mostrato un miglioramento maggiore del dolore rispetto al gruppo placebo. La curcuma è una spezia generalmente considerata sicura, il cui componente principale è la curcumina. Sebbene la curcumina abbia dimostrato effetti anti-infiammatori in vitro, non ci sono dati clinici disponibili per l'effetto della curcumina nel trattamento dell’osteoartrosi, anche se iquesti pazienti trattati con formulazioni contenente curcumina hanno mostrato risultati positivi nella gestione del dolore e della mobilità rispetto al placebo di controllo. L’estratto di rosa canina in polvere viene estratto dai frutti della pianta di rosa, ed è stato ampiamente utilizzato nella medicina tradizionale. Una meta-analisi di studi randomizzati e controllati ha mostrato che può avere una riduzione del dolore e ha portato a ridurre l'uso di analgesici nei pazienti con OA. Notiamo che fino a qualche anno fa si tendeva a fare una distinzione netta tra artrosi e artrite, che in effetti sono due malattie diverse. L'artrosi è un processo prevalentemente degenerativo e progressivo, non infiammatorio, dato soprattutto dall’età e dall’usura; l'artrite è un'infiammazione provocata da cause diverse, solitamente autoimmune e che può insorgere a qualsiasi età. Oggi i confini non sono così netti, e si parla appunto di osteoartrite, dove l'artrosi in pratica viene considerata una forma di artrite cronica. Di conseguenza quanto sopra riportato si può estendere anche alle diverse forme di artrite, che in generale necessitano di una dieta sana e bilanciata come detta il buon senso: pochi carboidrati raffinati, tanta frutta e verdura, almeno 2 litri di acqua al giorno, un buon rapporto di omega6/omega3 che si raggiunge consumando pesce 2-3 volte la settimana, cibi ricchi di Vit. C e D, e di oligoelementi. Bibliografia 1 - Indian J Physiol Pharmacol. 2013 Apr-Jun;57(2):177-83. Efficacy and tolerability of ginger (Zingiber officinale) in patients of osteoarthritis of knee. - Paramdeep G. 2 - Int J Mol Sci. 2013 Nov 21;14(11):23063-85. doi: 10.3390/ijms141123063. - Nutraceuticals: potential for chondroprotection and molecular targeting of osteoarthritis. Leong DJ1, Choudhury M, Hirsh DM, Hardin JA, Cobelli NJ, Sun HB. 3-Am Fam Physician. 2011 Jun 1;83(11):1287-92. - Treatment of knee osteoarthritis. Ringdahl E1, Pandit S. 4-www.angen.net Sappiamo tutti quanto il consumo di sale possa portare a problemi come ipertensione, aumento del rischio di tumori, malattie cardiovascolari, renali e osteoporosi. In Italia il consumo medio giornaliero oltrepassa i 10g al giorno, che equivale a oltre il doppio della dosa giornaliera raccomandata dall' OMS! Purtroppo non si tratta solo del sale aggiunto, facilmente riconoscibile e quantificabile, ma soprattutto di quello "nascosto" negli alimenti, come il glutammato di sodio che è presente nei dadi da brodo e in molti cibi pronti, sia nelle preparazioni casalinghe sia in quelle industriali. Entro Dicembre 2016 sarà obbligatorio riportare in etichetta la quantità di sale, e non più sodio, facilitandone così la comprensione da parte del consumatore. E’ importante che il consumatore sappia riconoscere la quantità di sale o sodio negli alimenti: la maggior parte dei prodotti derivati dai cereali (compreso il pane!), salumi e formaggi preconfezionati, prodotti inscatolati sono solitamente addizionati di sale. Nella realtà delle abitudini di consumo in Italia resta il problema del sale che si ritrova nei prodotti la cui porzionatura avviene al banco vendita. In questo caso, al consumatore non viene offerta alcuna notizia circa la quantità di sale presente in quello che acquista e consuma. Al consumo di sale può essere legata l’assunzione di Iodio, la cui quantità assunta con gli alimenti non è spesso sufficiente a garantirne l’adeguato apporto giornaliero. Lo iodio è un elemento che il nostro organismo non sintetizza, e allo stesso tempo è fondamentale per alcune funzioni vitali del nostro organismo, quali la sintesi degli ormoni della tiroide. Necessariamente lo dobbiamo introdurre con la dieta: gli alimenti più ricchi di iodio sono i pesci di mare ed i crostacei, ma anche uova, latte e carne ne contengono importanti quantità, mentre concentrazioni minori si ritrovano nei vegetali e nella frutta. Ricordiamo che il fabbisogno giornaliero si aggira intorno ai 150 μg/giorno mentre bambini e donne in gravidanza devono assumerne 50-100 μg/giorno in più. Pericoli possono esserci per i vegetariani stretti che non consumano pesce e prodotti di origine animale in genere. Ma perché è importante lo Iodio? La carenza di iodio ha ripercussioni particolarmente gravi sullo sviluppo mentale e fisico del bambino. La carenza di ormone tiroideo nell’età fetale e neonatale può portare, nei casi più gravi, a cretinismo. Nell’adulto, invece, determina il gozzo, le cui conseguenze sono più o meno severe a seconda dell’età e del sesso del soggetto. Il gozzo è la malattia tiroidea più diffusa al mondo. Anche se la malattia è più diffusa in paesi in via di sviluppo, focolai di carenza iodica si trovano nella maggior parte dei paesi europei. Dalle ultime rilevazioni del Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute (Cnesps) dell’Istituto superiore di sanità, in Italia si ammalano di gozzo circa 6 milioni di persone, più del 10 per cento della popolazione del nostro paese e l’impatto economico di questa malattia è stimato in oltre 150 milioni di euro all’anno. Addirittura, nella sola popolazione giovanile, il gozzo interessa almeno il 20 per cento delle persone. Si può quindi affermare che nel nostro paese il gozzo sia da considerarsi endemico, visto che supera la soglia del 5 per cento di prevalenza posta dall’OMS per definirlo tale. Il sale iodato è la soluzione proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per combattere i disordini da carenza iodica, che si possono sviluppare in alcune Regioni del pianeta, in base alla concentrazione più o meno elevata di Iodio presente nel terreno, e di conseguenza, nei suoi frutti (e negli animali che se ne cibano). Anche le abitudini alimentari influenzano l’apporto iodico. In Giappone, per esempio, dove il consumo di alghe (alimento ricco di iodio per eccellenza), è diffusissimo, il problema non sussiste, anzi spesso è necessario adottare misure per prevenire eventuali eccessi, anche se l’organismo è perfettamente in grado di eliminare il surplus di iodio con le urine. In ogni caso, particolare cautela si deve avere nell’utilizzo di alcuni integratori alimentari contenenti quantità elevate di iodio (solitamente a base di alghe), perché potrebbero portare ad una assunzione eccessiva. Ma cos’è il sale iodato? Il sale iodato è il comune sale da cucina ricavato dall’acqua di mare o dalle miniere di salgemma, quindi addizionato artificialmente di iodio sotto forma di ioduro o iodato di potassio. In Italia ogni chilogrammo di sale iodato contiene 30 mg di iodio. Il suo utilizzo non ha controindicazioni e il suo sapore è esattamente lo stesso del sale comune da cucina. Tuttavia il consumo da patte della popolazione, e la sua diffusione nei punti vendita, è ancora troppo poco capillare per garantirne un consumo quotidiano da parte di tutti. Da tutte le considerazioni effettuate emerge quindi l’importanza della sensibilizzazione delle persone, al fine di diminuire il consumo di sale in genere e, seppur nelle quantità massime indicate, favorire il consumo di sale iodato. Tale sensibilizzazione andrebbe fatta a più livelli, sia come azione di pubblica utilità da parte delle istituzioni, sia come formazione specifica da parte dei singoli professionisti (nutrizionisti e medici) al fine di rendere il consumatore sempre più consapevole delle scelte da fare sia negli acquisti, sia nella preparazione degli alimenti, e imparare sempre di più a tutelare la propria salute. Le linee guida della sana alimentazione sono sempre la base da cui partire per mantenersi in salute: poca carne, latticini e pesce due volte la settimana, pochi grassi saturi, pochi salumi e pochi dolci, tanta frutta, verdura e cereali integrali, movimento giornaliero, almeno 1 litro e mezzo di acqua al giorno. Minimizziamo l’utilizzo dei dadi, e aggiungiamo il sale iodato! Il caffè è la bevanda più bevuta al mondo, dopo l’acqua. Recenti studi hanno dimostrato che il caffè non solo fa bene per il mal di testa o per tenerci svegli, ma pare che possa avere benefici contro alcune malattie neurodegenerative.
Ma come funziona? Una volta ingerito del caffè, la sua caffeina può raggiungere la massima concentrazione nel sangue in circa due ore, anche se in alcuni individui bastano circa 15-20 minuti. Una volta nel sangue attraversa con facilità la barriera ematoencefalica e quindi giunge nel cervello, dove compie le sue note funzioni. Da oltre 10 anni ormai si sta studiando l’effetto del caffè e/o della caffeina sulla salute, e pare, dagli ultimi studi, che il consumo regolare di circa 2-3 tazzine al giorno sia associato ad una riduzione significativa della probabilità di incorrere nel Parkinson e di ridurne alcuni sintomi (es. i movimenti involontari e non controllati, la bradicinesia. Tali azioni positive si hanno grazie al fatto che la caffeina e i suoi sottoprodotti generati dal metabolismo, ostacola e riduce la distruzione dei neuroni dopaminergici (cioè che utilizzano la dopamina in qualità di messaggero chimico) della sostanza nera del cervello, manifestazione degenerativa che si verifica nei soggetti affetti dal Parkinson. Alcuni studi hanno evidenziato che tali effetti positivi si verificano anche attraverso il consumo di basse concentrazioni di caffeina, ma che spesso questa genera una sorta di adattamento cioè i suoi effetti tendono gradualmente a ridursi. Da sottolineare, però, che lo studio evidenzia una significativa predisposizione genetica, poichè sembra che gli effetti positivi siano legati ad alcune varianti genetiche associate agli enzimi in grado di degradare la caffeina. Altri recenti studi hanno evidenziato che il caffè può essere protettivo nei confronti dell’Alzheimer, grazie alle proprietà della caffeina che sembra agisca positivamente sulla memoria a lungo termine. In particolare, sembra che la caffeina riesca a ridurre le placche amiloidi tipiche dell’Alzheimer, che si formano nel cervello portando alla morte i neuroni. Oltre a questi casi particolari, gli studi ci portano ad affermare, in generale, che chi consuma caffè in quantità ragionevole (1-5 tazzine al giorno), tende a vivere più a lungo perché protetto da molte malattie, in particolare: diabete, parkinson, malattie cardiovascolari, neurologiche e persino dai suicidi! Il segreto non sarebbe nella caffeina ma in altre sostanze contenute nei suoi chicchi, i composti bioattivi del caffè che porterebbero alla riduzione dell’insulino-resistenza e dell’infiammazione sistemica, come riportato nell’enorme studio americano “Nurse Health study” della Harvard University, pubblicato sulla rivista Circulation. Il messaggio alla popolazione generale è che nelle persone sane, bere fino a 3-4 tazzine di caffè al giorno non solo non fa male, ma potrebbe addirittura prevenire alcune malattie, tra cui il tumore del colon, fegato ed endometrio. In dosi più elevate o nelle persone malate o durante la gravidanza e allattamento potrebbe avere effetti negativi e le dosi potrebbero dover essere ridotte. A tal proposito ricordiamo il parare scientifico dell’ EFSA (Autorità Europea per la sicurezza alimentare) del 27 maggio 2015, secondo cui dosi abituali di caffeina fino a 400 mg al giorno (4 tazzine di caffè) non desta preoccupazioni nella popolazione sana, e 200 mg di caffeina al giorno (2 tazzine) non è pericolosa per donne in gravidanza o in allattamento. Restano esclusi bambini e adolescenti, per cui le dosi non sono state definite. Sicuramente c’è ancora molto da approfondire, ma non mancano le premesse per futuri interessanti sviluppi. 19 Novembre 2015 BIBLIOGRAFIA: Coffee consumption and risk of the metabolic syndrome: A meta-analysis.Shang F1, Li X1, Jiang X2 - Diabetes Metab. 2015 Sep 29. pii: S1262-3636(15)00119-6. doi: 10.1016/j.diabet.2015.09.00Association of Coffee Consumption with Total and Cause-Specific Mortality in Three Large Prospective Cohorts.Ding M1, Satija A1, Bhupathiraju SN1, Hu Y1, Sun Q2, Han J3, Lopez-Garcia E4, Willett W2, van Dam RM5, Hu FB6. -Circulation. 2015 Nov 16. pii: CIRCULATIONAHA.115.0173EFSA Journal 2015;13(5):4102 [120 pp.].10.2903/j.efsa.2015.4102EFSA Panel on Dietetic Products, Nutrition and Allergies (NDA)Opinion of the Scientific Committee/Scientific Panel request European Commission (EFSA-Q-2013-00220) www.scienzaesalute.blogospera.it www.insalutenews.itc Negli ultimi anni diversi studi hanno dimostrato che i soft drink possono contribuire all'aumento di peso e quindi alle complicanze ad esso collegate: obesità, diabete di tipo II, malattie cardiovascolari. Questo a causa dell’elevato contenuto di zuccheri aggiunti e del loro basso senso di sazietà. L’ obesità oramai è un problema globale, favorito dagli stili di vita errati, nell’era del cibo spazzatura e della sedentarietà, degli ambienti obesogenici, del cibo ad ogni angolo di strada, a basso costo, a basso potere nutrizionale ma altamente calorico. In questo contesto, l'American Heart Association ha raccomandato una riduzione del consumo di zucchero aggiunto a non più di 100-150 kcal/die. La riduzione del consumo di zucchero è anche una raccomandazione del “Dietary Guidelines for Americans” del 2010 e un obiettivo di Healthy People 2020. E’ dal 2002 che l’Organizzazione mondiale della Sanità raccomanda che gli zuccheri non debbano costituire più del 10% del consumo totale di energia al giorno, percentuale ribadita ancora nel nuovo progetto di linee guida del marzo 2014. Si suggerisce inoltre che una riduzione al di sotto del 5% del consumo totale di energia giornaliera avrebbe dei benefici aggiuntivi. Il 5% del consumo totale di energia è pari a circa 25 grammi al giorno (circa 6 cucchiaini di zucchero) per un adulto con un normale indice di massa corporea (BMI). Uno dei problemi è che gran parte degli zuccheri consumati oggi sono "nascosti" in alimenti trasformati, che di solito non sono visti come dolci. Ad esempio, 1 cucchiaio di ketchup contiene 4 grammi di zucchero (circa 1 cucchiaino), mentre una lattina di bevanda alla soda ne contiene fino a 40 grammi (circa 10 cucchiaini). “Soft drink” è un termine piuttosto generico per indicare bevande non alcoliche dolci (zuccherate o edulcorate), in genere gassate, talvolta arricchite di vitamine e micronutrienti o di aromi/essenze/estratti/succhi che vanno a caratterizzare la bevanda in termini gustativi. Vengono abitualmente distinte le seguenti tipologie:
Fondamentale è l’esposizione dei ragazzi ai media, poiché è emerso da alcuni studi che diminuendo l’esposizione alla pubblicità (per esempio in TV), sono diminuiti i consumi sia in bambini delle scuole elementari che in adolescenti nelle scuole superiori. Negli ultimi dieci anni il consumo globale di tutte le bevande in commercio è aumentato quasi quattro volte più velocemente della crescita della popolazione a livello globale. In Italia siamo ancora al di sotto delle soglie allarmanti di altri Paesi, ma parallelamente al consumo di bibite si sta verificando un pericoloso abbandono dei principi base della dieta mediterranea che è universalmente conosciuta come importante nella prevenzione delle malattie, e che ha fino ad ora garantito agli italiani una vita media di 79,4 anni per gli uomini e di 84,5 per le donne, tra le più elevate al mondo. Per quanto riguarda i soft drink light, poiché privi di calorie, potrebbero essere consumati senza attenzione anche da persone che dovrebbero stare attente all’introduzione di zucchero. Il pericolo è che si potrebbe sottovalutare il loro impatto sulla salute dato dagli edulcoranti, e il loro impatto psicologico sulle persone, che forti di aver ingerito una bibita “light” sono portate poi a consumare di più. Come ricorda l’INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione), l’uso degli edulcoranti non permette di ridurre il peso corporeo se non si diminuisce la quantità totale di calorie e non si aumenta l’attività fisica. Inoltre, nonostante l’assenza di zucchero, i dolcificanti presenti nelle bibite dietetiche altererebbero la percezione del gusto “dolce”, favorendo un appetito sempre maggiore. Questo perché, alterando il gusto, aumentano il desiderio di zucchero e non danno mai quella sensazione di sazietà propria di alimenti che contengono il saccarosio. Una voce a parte meritano gli energy drink, che sono oramai entrati nel paniere Istat sotto la voce “Reintegratore energetico” (per reintegrare sali e vitamine), il cui consumo mondiale è aumentato negli ultimi anni, e sono state espresse preoccupazioni sia dalla comunità scientifica sia dal pubblico in generale sugli effetti che questi prodotti possono avere sulla salute. Sono la faccia evoluta dei soft drinks, che entrano silenziosamente nelle nostre vite quotidiane, istituzionalizzati. Ma proprio i dati e la scienza più recenti, paradossalmente, ne confermano i rischi, principalmente dovuti al loro contenuto in caffeina. Questo fenomeno, oltretutto, è aggravato dall’associazione con un marketing aggressivo verso i giovani e inesperti consumatori. Gli energy drink possono arrivare a contenere una quantità di caffeina pari 400 mg per lattina, rispetto ai 100-150 mg di una tazzina di caffè. L’avvelenamento da caffeina può avvenire con livelli superiori ai 400 mg al giorno per gli adulti, mentre bastano poco più di 100 mg per gli adolescenti e oltre i 2,5 mg per chilo di peso nei bambini sotto i dodici anni. Secondo Jeppe Matthiessen, del National Food Institute, “sembra che ci sia stato un cambiamento nella percezione del tipo di bibite che le persone considerano normale bere. Tra i consumatori più giovani, gli energy drink hanno ora lo stesso status che prima avevano le bibite analcoliche. Sia l’uso che l’atteggiamento nei confronti delle bevande energetiche fanno prevedere che il consumo aumenterà nei prossimi anni, e questo rende necessario fornire più informazioni ai bambini e agli adolescenti, e anche ai genitori”. L’elevata quantità di caffeina contenuta negli energy drink riduce la sonnolenza ma senza diminuire gli effetti dell'alcol, qualora consumati insieme, come spesso avviene. Questo determina uno stato di "ubriachezza vigile," con la possibilità di continuare a bere. Per quanto riguarda la commercializzazione, attualmente gli ED possono essere venduti in tutti gli Stati membri, anche se alcuni legislatori nazionali hanno deciso di adottare un approccio normativo più specifico, anche mediante le regole per le vendite ai minori. In Svezia, per esempio, le vendite di alcuni prodotti si limitano alle farmacie e sono vietate al di sotto dei 15 anni. In Ungheria, invece, dal 2012 è stata introdotta una tassa sulla salute pubblica, che si applica alle bevande energetiche contenenti caffeina, oltre ad una serie di altri prodotti e sostanze nutritive. Da queste premesse è stato condotto un piccolo studio pilota su un campione di popolazione adulta, rappresentato maggiormente da giovani e giovanissimi, da cui è emerso che sono soprattutto i giovanissimi (ragazzi della scuola dell’obbligo) a consumare le bibite durante i pasti, ma in genere, nel campione considerato, non è trascurabile la percentuale di coloro che hanno l’abitudine al consumo abituale (più volta in una settimana) o cronico (più volta al giorno), anche se siamo decisamente lontani dai consumi di soft drink -di ogni tipologia considerata- di altri Paesi Europei o degli USA. Quello che è emerso è lo spostamento di consumi cronici dalle bevande gassate verso quelle che all’apparenza possono risultare “salutistiche”, come the freddo e succo di frutta, mostrando però così una scarsa informazione, da parte dei consumatori, sulla problematica dello zucchero “nascosto”. Vale la pena sottolineare quanto sia importante la consapevolezza per le scelte del consumatore, soprattutto del giovane consumatore, quindi potrebbe essere utile un impegno da parte delle istituzioni, per avere sempre informazioni chiare e coerenti di cosa consumare e quindi acquistare, e un maggior controllo sulla pubblicità e sul marketing, che giocano un importante ruolo educativo e culturale. Da una parte ci sono i profitti delle aziende e dall’altra la promozione della salute da parte delle istituzioni, e sarebbe opportuno trovare una via d’ intesa, affinchè il consumatore possa avere, oltre alle informazioni necessarie, anche un maggior accesso al cibo sano, nonché un ambiente più sostenibile e meno obesogenico. BIBLIOGRAFIA (1) A global response to a global problem: the epidemic of overnutrition - Mickey Chopra,1 Sarah Galbraith,2 & Ian Darnton-Hill3 - Bulletin of the World Health Organization 2002 (2) Self-reported advertising exposure to sugar-sweetened beverages among US youth - Kumar G, Onufrak S, Zytnick D, Kingsley B, Park S. -Public Health Nutr. 2014 Aug (3) New draft guideline proposals – www.who.int (4) Public Health Nutr. 2014 Aug (5) Energy and Fructose From Beverages Sweetened With Sugar or High-Fructose Corn Syrup Pose a Health Risk for Some People - George A. Bray - Adv Nutr. Mar 2013 (6) A systematic review investigating interventions that can help reduce consumption of sugar-sweetened beverages in children leading to changes in body fatness - Avery A, Bostock L, McCullough F - J Hum Nutr Diet. 2014 Sep 19 (7) www.ilfattoalimentare.it (8) www.coldiretti.it (9) Mange børn og unge får for meget koffein fra energidrikke- Lene Møller Christensen - Jeppe Decker Iversen - Anja Biltoft-Jensen -Marta Axelstad Petersen - Anders Budtz - Søndergaard - Jeppe Matthiessen - DTU Fødevareinstituttet Afdeling for Ernæring - E-artikel fra DTU Fødevareinstituttet, nr. 6, 2014 (10) “Linea Guida n. 4: Zuccheri, dolci e bevande zuccherate: nei giusti limiti” - www.inran.it (11) Diet soda intake and risk of incident metabolic syndrome and type 2 diabetes in the Multi-Ethnic Study of Atherosclerosis (MESA) - Nettleton JA, Lutsey PL, Wang Y, Lima JA, Michos ED, Jacobs DR Jr. - Diabetes Care. 2009 Apr (12) Energy drink consumption in Europe: a review of the risks, adverse health effects, and policy options to respond - Breda JJ, Whiting SH1, Encarnação R1, Norberg S1, Jones R1, Reinap M2, Jewell J1. - Front Public Health. Published online Oct 14, 2014. (13) Rilevazione dei consumi di bevande analcoliche in un campione di popolazione adulta – tesi di laurea di S.Calimandri in “Scienza dell’alimentazione e della nutrizione umana”, marzo 2015. |
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